Filippo Romagna ha raccontato le sue avventure e le sue sventure. Forse un giorno potrà scrivere un libro, girarsi dietro e sorriderne. Il difensore centrale fresco di rinnovo del contratto con il Sassuolo ha ripercorso le tappe della sua tortuosa carriera parlando così del campionato di B appena vinto: "La passata stagione è stata bellissima perché abbiamo vinto tante partite - ha detto a Cronache - abbiamo fatto sembrare facile ciò che facile non è assolutamente stato. Anche perché dopo le prime quattro partite non avevamo iniziato al meglio e abbiamo detto ‘Aspetta un attimo, quest’anno è tosta’. Invece siamo stati bravi a farla sembrare semplice, riconquistando la Serie A in questo modo. Sappiamo che quest’anno ci aspetta tanta fatica, sarà tosta ma sappiamo cosa vogliamo, dovremo cambiare la mentalità: nella scorsa stagione arrivavi spesso da una vittoria, ora dobbiamo settarci sul fatto che anche un punto in alcune circostanze è un ottimo risultato".

Il suo percorso è iniziato alla Juventus che lo aveva notato al Rimini: "Non me la sentivo di lasciare casa. Loro sono stati intelligenti: hanno invitato me e la mia famiglia un weekend a Torino, facendomi vedere tutto, dalle strutture ai calciatori della prima squadra, tra cui proprio mister Grosso! Quando li abbiamo incontrati, Chiellini ha regalato una maglietta a mio fratello… a me invece Del Piero! Sono stati bravi… significa che mi volevano tanto".

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Quella maglietta del fratello è diventata una pettorina in allenamento: "Ho fatto lunghi periodi con la prima squadra della Juventus: per un difensore in quegli anni era uno spasso. C’erano quelli della BBC, cercavo di rubare ogni giorno a quei mostri sacri. Si compensavano tra di loro, avevano mentalità e preparazione alle partite. Questa gliel’aveva trasmessa anche l’allenatore: prima Conte e poi Allegri. Era clamoroso davvero come si compensassero. Gli altri difensori in rosa, gente come Cáceres, sembrava quasi normale rispetto al loro livello. Quando ti alleni nella Primavera della Juventus, vedi la prima squadra così vicina e pensi di poterci stare. Quando sali e inizi il percorso… ti rendi conto della differenza di livello e di quanto sei fortunato ad avere quell’opportunità. Capisci che c’è tanta strada da fare".

Poi due anni positivi a Cagliari e il passaggio a Sassuolo: "De Zerbi ha cambiato completamente il mio modo di vedere il calcio. L’ho ammirato molto. Appena arrivato, mi ha chiamato in uno stanzino: ‘Per me parti dietro agli altri, sei l’ultimo arrivato’, è stato subito chiaro. Poi ho iniziato a giocare e anche grazie ad alcuni infortuni altrui, ho trovato spazio nelle rotazioni".

Poi l'inizio della fine: "Proprio quando stavo avendo continuità, un infortunio molto grave al tendine rotuleo mi ha stroncato. Era il miglior periodo della carriera: avevo 22 anni. Il giorno prima, il premier Conte aveva chiuso l’Italia per il primo lockdown e questo ha amplificato i tempi di recupero e complicato sia l’operazione che la riabilitazione. Sono stato fermo per più di tre anni. So bene i sacrifici che ho fatto per tornare".

Qui inizia un calvario: ultima partita il 9 marzo 2020, rientra il 26 maggio 2023 scendendo in campo un solo minuto contro la Sampdoria. Tre stagioni saltate e, quella successiva, in prestito alla Reggiana prima di rientrare al Sassuolo e riportarlo in A in quella appena passata: "Ero un 22enne che giocava titolare in Serie A. La prima partita che ho fatto dopo l’infortunio… l’ho fatta a 26 anni. Pensavo: ’Ho lasciato che ero un giovane, rientro che sono un giocatore affermato’. Solo che nel frattempo avevo saltato tutto, mi ha fatto strano. Mi è servito, avrei preferito evitarlo, ma con il senno di poi, mi ha insegnato tanto e fortificato. Certo, tornassi indietro lo eviterei volentieri… ma mi ha formato caratterialmente. Ho avuto sfortuna, ma sarebbe stato peggio più avanti: se ti accade a 22 anni, hai tutto il tempo per tornare in pista; se ti accade a 30, forse, hai finito".

Quattro operazioni e un tunnel che sembrava senza uscita: "Mi sono operato con la previsione di rimanere fuori all’incirca 8 mesi. Alla fine sono stati più di 3 anni. Questo ha cambiato anche il modo con cui vedo gli infortuni: spesso quando uno si fa male, 6 mesi fuori sembrano un’eternità. Che vuoi che siano! Dopo 16 mesi, io facevo fatica a correre, nonostante facessi un doppio allenamento tutti i giorni, più provavo e riprovavo ma si infiammava tutto. Dopo 16 mesi, che sono tanti, abbiamo capito che non riuscivo davvero a correre. Quindi sono andato a Barcellona per un intervento, mai fatto su un calciatore, per provare a risolvere la situazione: neanche l’ortopedico sapeva darmi dei tempi di recupero, nessun giocatore lo aveva mai fatto. Ma non avevo scelta, non c’erano alternative. Ho avuto la fortuna di avere la mia famiglia così vicina, partendo da quella che all’epoca era la mia fidanzata e oggi è mia moglie Ketrin. Mio fratello, poi… partiva di notte da casa per venire da me, per starmi vicino, perché in quei 16 mesi c’è stato anche tanto dolore, pure fisico perché il ginocchio si infiammava e mi faceva male. Tutti mi dicevano di andarci sopra, ma non migliorava mai e subentrava la frustrazione. Avevo paura di dover smettere, non lo volevo accettare, non ci volevo credere. Però guardavo i segnali che mi mandava il mio corpo e non c’era altra strada. Poi questo intervento: o la va, o la spacca. ‘Non so come ne uscirò’, mi ripetevo. Ma dovevo andare avanti. Dopo quella, ci sono state due ulteriori operazioni».

Con il Sassuolo - che nel 2020, nonostante l’infortunio, lo aveva acquistato a titolo definitivo - sempre accanto: "Tutti questi passaggi li ho fatti in condivisione con il Club. Era una battaglia comune e mi sono stati vicini con i fatti. Abbiamo affrontato ogni singola tappa insieme. Mi sono addormentato a 22 e mi sono risvegliato a 26. La carriera del calciatore è breve: ogni giorno lavoro per allungarmela dei tre anni che ho perso e recuperarli".

L’infortunio gli ha fatto vedere il mondo da un’altra prospettiva: "Prima vivevo solo di calcio. Quando ho iniziato a capire che forse avrei dovuto smettere, mi sono iniziato a chiedere cosa avrei fatto dopo: ‘Metti che non ci riesco più, che faccio?’ Ho dovuto pensare a un piano B: un percorso di studi. Mi sono fatto forza e ci ho investito, è un consiglio che do ai giovani. Non tutti diventeranno calciatori e anche se arriveranno, ci sono mille variabili per cui quel sogno può finire. Qualcuno diventerà calciatore, ma magari qualcun altro può diventare un medico, un ingegnere o qualunque altra cosa. Basta che sia felice. In quel momento di difficoltà mi sono reso conto che mi sarebbe piaciuto rimanere nel calcio, che stavo conoscendo la parte di campo e che avrei dovuto allargare gli orizzonti a quella dietro a una scrivania. Ci alleniamo una volta al giorno per la maggior parte delle volte, dovevo investire l’altra metà in qualcosa: ho ripreso a studiare. Mi sono iscritto a Economia, un corso di laurea triennale online. Adesso sono al secondo anno e sto coltivando l’idea di formarmi".

Il calcio ma non solo: "L’infortunio mi ha fatto capire l’importanza del calcio nel bene e nel male. Mi è mancato tantissimo, ho avuto paura di perderlo e gli do ancora più importanza di prima. Però lo vivo con meno tensione: prima delle partite, un tempo, ero un pochino teso; adesso certo, hai quella tensione, ma positiva, penso ‘Che bello, finalmente si gioca’. Dall’altra parte ho capito che non c’è solo quello, durante la riabilitazione ho visto oltre, anche situazioni più gravi delle mie che mi hanno fatto sentire fortunato".

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Sezione: News / Data: Lun 21 luglio 2025 alle 14:34
Autore: Sarah G. Comotto
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