Roberto De Zerbi, allenatore del Sassuolo, ha parlato in una lunga e bella intervista sulla Gazzetta dello Sport. Le sue parole

L’intervista inizia con una domanda di mister De Zerbi a G.B. Olivero: “Cosa l’ha impressionata di più dell’Ajax? Io sono rimasto impressionato di più dal senso di divertimento che trasmettono e dal coraggio: sul 2-1 a Torino non si sono chiusi, hanno continuato ad attaccare”. De Zerbi racconta la sua storia: “Fu in Romania che decisi di allenare. Giocavo nel Cluj, in squadra c’erano tanti stranieri, culture diverse. Prendendo un po’ da tutti mi accorsi che mi piaceva vedere il gioco da un’altra prospettiva. La sera non avevo molto da fare e studiavo calcio: erano gli anni di Guardiola contro Mourinho e del Bayern di Van Gaal”. Prosegue De Zerbi: “Il mio approccio alla vita incide molto. Io sono nato al nord, ma mio padre ha origini calabresi e spesso ho lavorato al sud: ho il sangue caldo e metto i rapporti umani al primo posto. A me interessano le persone, la testa, il carattere. Ho l’esigenza di avere un rapporto personale con i giocatori, altrimenti non riesco a dare il meglio di me. L’educazione, il rispetto, perfino l’affetto fanno bene anche in una squadra. Quando giocavo nella Primavera del Milan osservavo Baresi, Maldini, Tassotti, Costacurta e gli altri: erano punti di riferimento nel comportamento, non solo nel gioco. E se uno non è proprio stupido, qualcosa impara”. Sposato con Elena, papà di Elisabetta (15 anni) e Alfredo (13), De Zerbi si racconta così: “Sono un sognatore, molto ambizioso. Leale, ma anche instabile, impaziente e tremendamente rompiballe. Capace di scelte spiazzanti come quando decisi di restare in C a Foggia rinunciando alla A con il Crotone: mi sarei sentito un ingrato nei confronti di un club e una piazza che mi avevano dato tanto e avrei lavorato male nella nuova realtà. Sono capace di gestire i difetti, me la cavo a nascondere la polvere sotto il tappeto. Sa qual è la prima cosa a cui penso quando sono in viaggio verso casa dopo una partita? Alla formazione della gara seguente. E nel corso della settimana magari cambio due o tre uomini, ma l’idea di base non la modifico quasi mai. Perché di solito la prima idea è quella giusta”.

De Zerbi, quella tra giochisti e risultatisti è una contrapposizione reale?
“Certo. E’ uno scontro ideologico che c’è sempre stato, penso a Sacchi e Trapattoni per esempio. Non è negativo questo dibattito. Ma si deve rispettarel’idea dell’altro, non c’è una sola strada per fare calcio. In Italia tutto quello che è nuovo fa paura. Si tende a sminuire quello che non fa parte della nostra cultura. Noi ci siamo storicamente basati su difesa bassa e contropiede. Ma quando c’è il divertimento è tutto più semplice e leggero: penso all’Ajax e all’Atalanta”.

Il gioco ti esalta quando stai bene. Ma non è altrettanto importante il secondo aspetto, ossia che il gioco ti protegge quando stai meno bene?
“Più che di gioco preferisco parlare di organizzazione, con la palla e senza. L’organizzazione copre stati fisici imperfetti e limiti di personalità. E poi esalta le qualità individuali. Infatti il gioco deve dipendere dalle caratteristiche della rosa: non puoi applicare le stesse idee con chiunque”.

Quanto è importante, in un contesto organizzato, l’interpretazione del giocatore?
“E’ determinante. Non solo l’interpretazione ma anche le letture, le scelte. Si allenano la personalità, il coraggio, la mentalità, la fiducia: qualità che nella scelta hanno più rilevanza rispetto alla tecnica”.

Perché in Serie A sono diminuite in modo così drastico tecnica, qualità e ritmo? “Sono calate insieme la qualità individuale e il tempo per la giocata e quindi si fa più fatica. A livello fisico i giocatori della Premier sono più forti e da noi l’aspetto tattico è preponderante, però è chiaro che in Italia il cervello e le gambe devono andare più veloci”.

Il suo Sassuolo è stato un continuo laboratorio: difesa a tre e a quattro, centravanti, falso nove…
“Capisco cosa intende, ma contesto la definizione di laboratorio. Io non tento di sperimentare, sono la visione e la prospettiva che cambiano. Il calcio non è sempre uguale. Un calciatore non può interpretare il ruolo di mezzala o di terzino
sempre allo stesso modo. I miei cambiamenti sono finalizzati a semplificare il compito dei giocatori, non a sorprendere o strabiliare. Sa qual è la cosa più bella per un allenatore? Riuscire a prospettare ai giocatori tutto quello che poi succederà in partita, per facilitargli il compito. Io penso al calcio 24 ore al giorno. Quando mi viene in mente una novità tattica rifletto anche 3 mesi, valuto pro e contro. E prima di presentarla alla squadra, devo rispondere in modo convincente alle domande che nel frattempo mi sono venute. Gli allenatori conoscono i problemi e studiano come risolverli”.

Se dovesse spiegare cos’è il gioco di posizione?
“Per come lo intendo io, è la ricerca di un due contro uno perenne. Devo creare le condizioni di superiorità numerica affinché un giocatore guidi la palla e vada a ricercare un’altra situazione di superiorità con un compagno”.

Di Klopp già si dice che ha perso troppe finali, di Guardiola che senza Messi non ha vinto la Champions, di Allegri che gli scudetti non bastano.
“Bielsa non ha vinto quasi nulla, ma gli hanno intitolato lo stadio del Newell’s. Sono stato una settimana da lui, per studiarlo, e posso dire che con Bielsa ha vinto il calcio. Il Bayern di Guardiola non ha conquistato la Champions, ma resterà nei libri di calcio. E lo stesso vale per Allegri”.

Domenica finisce il campionato: Atalanta-Sassuolo è fondamentale per la Champions.
“Daremo il massimo come abbiamo fatto con Torino e Roma: vogliamo il 10° posto. Io non concepisco qualcosa che non sia un impegno totale, al 100%. Lo scorso anno col Benevento retrocedemmo battendo il Milan e facemmo 4 punti nelle ultime 3 partite”.

Sezione: News / Data: Mer 22 maggio 2019 alle 11:20
Autore: SN Redazione
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