Lunga e interessante intervista al Corriere della Sera per Roberto De Zerbi. L'ex tecnico del Sassuolo che ora guida il Marsiglia ha parlato della sua carriera e ha svelato alcuni retroscena sui talenti difficili (e non solo): "Di solito hanno una sensibilità spiccata. L’allenatore deve aiutarli e capirli, ma il primo passo deve farlo il giocatore. Il mio rimpianto più grosso è l’uruguaiano Schiappacasse, al Sassuolo. Non sono riuscito a tirargli fuori niente, poi ho saputo dell’arresto per detenzione di arma da fuoco".

Pensa solo al calcio?
"No, sono molto attento a tutto ciò che succede e non solo perché ero in Ucraina quando scoppiò la guerra. Ma la verità è che il tempo per il resto — come ha raccontato Klopp, che stimo forse più come uomo che come allenatore e ho detto tutto — è molto poco".

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Sente di poter crescere?
"Faccio fatica a godermi qualsiasi cosa, non sono mai contento. Allenare mi piace tanto — l’ultimo mese è stato uno dei periodi in cui mi sono divertito di più — ma bisogna capire quanto potrò allenare ancora. Come lavoro è pesante, Klopp ha ragione".

È una provocazione?
"No. Io nel calcio non devo starci per forza. Ma ci voglio stare a modo mio, ad esempio riuscendo a tirare sempre fuori le qualità dei giocatori".

A volte si dà troppo peso agli allenatori?
"Sì. Però allora quando va male non deve essere solo colpa nostra. In area, il d.s e il presidente contano più dell’allenatore. Poi è chiaro che il tecnico deve racchiudere tante caratteristiche, di 7-8 lavoratori. E un grande allenatore deve essere altruista, generoso".

Fino ad aprile, i suoi non erano mai stati allo stadio.
"Perché gli allenatori sono spesso insultati e mio papà è più caldo di me... Anche i miei figli non scherzano: a Roma-Brighton non sono venuti".

A chi deve dire grazie per la sua carriera?
"A tante persone. Da mio padre che mi ha portato allo stadio, a mia mamma laureata in Lettere che mi ha obbligato a studiare. Poi il Milan. E da allenatore, tutti i miei giocatori, perché attraverso di loro viene fuori il mio pensiero. Il succo del nostro lavoro è questo".

Nel recente documentario sul Marsiglia lei urla ai giocatori una cosa insolita: «Per me il calcio è riscatto sociale». Che storia c’è dietro?
"È la prima volta che ne parlo: c’è un momento preciso della mia vita dove inizio a fare calcio per sistemare la mia famiglia. Passo dall’oratorio al Lumezzane e poi al Milan, fra il 1992 e il 1994, in coincidenza con la crisi economica in casa: siamo costretti a vendere la fabbrica di tappetini e passiamo anni molto difficili. A quel punto non scherzavo più. Uscito dalla Primavera, il giorno dopo la firma del primo quinquennale col Milan, ero in filiale a firmare il mutuo per comprare la casa ai miei genitori. Il calcio per me non è mai stato solo divertimento".

Questa tensione emotiva da calciatore le ha pesato?
"Mi ha tolto e dato. Mi nutrivo di quella motivazione: è stata un motore ma anche un freno perché quando sono riuscito a sistemare la mia famiglia ho avuto un down motivazionale. Ma quel modo di vedere il lavoro mi è rimasto dentro, come una spinta".

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Sezione: News / Data: Gio 09 ottobre 2025 alle 09:41
Autore: Sarah G. Comotto
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