Roberto De Zerbi domenica prossima con il suo Brighton festeggerà le 300 panchine da professionista. Il tecnico ha riavvolto il nastro dei ricordi in una bella intervista rilasciata al Corriere di Brescia e ha parlato della sua carriera da allenatore e da giocatore, del Sassuolo, delle sue ex squadre e delle sue idee. Ecco le sue parole: "Calcisticamente, per le esperienze da allenatore e calciatore, Foggia è la mia città. E quella è stata la mia squadra più bella, mi rappresentava anche come carattere. Mi sento ancora con tutti loro, Quinto è entrato nel mio staff e molti sono diventati allenatori. Le riunioni del giovedì erano confronto continuo tra di noi, ci scambiavamo idee, era stimolante".
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L’ha aiutata aver iniziato da giovane, per stabilire un rapporto stretto con i suoi?
"Senza dubbio, poi però conta il carattere. Se io ho fatto strada, il merito è dei calciatori. Da allenatore non mi considero superiore a loro: decido io, certo, ma il rapporto deve essere di fiducia. Per essere autorevole non serve controllare a che ora tornano a casa la sera. Non l’ho mai fatto. Quel Foggia era composto da ragazzi intelligentissimi, curiosi: nell’ora e mezza in cui analizzavamo la partita ci divertivamo, parlavamo di calcio anche a cena nelle sere di Champions. La mia idea di gioco era entrata nelle loro teste. Sono state squadre belle anche il mio Sassuolo, lo Shakhtar che ho dovuto lasciare troppo presto. Ma quel Foggia resta in cima. Sa che non dormo ancora la notte per la sconfitta nella finale play off con il Pisa?".
E sull’altra panchina c’era Gattuso. Quella è la gara che rigiocherebbe tra queste 299?
"Sì, lo è. Perché ci è stata tolta una promozione in Serie B che meritavamo. E nessuno ce la restituirà. C’era un entusiasmo pazzesco attorno a noi, vincemmo la Coppa Italia di C, arrivammo però all’atto finale con tanti infortunati, dopo aver buttato molte energie mentali. E la promozione diretta ci sfuggì con il Benevento: sull’1-0, sbagliammo un rigore e ci ripresero".
La vittoria cui è più legato?
"Proprio sulla panchina del Benevento, l’uno a zero a San Siro contro il Milan nel 2018. Si chiuse un cerchio: segnò Iemmello, con me a Foggia, ritrovammo Gattuso da avversario. Avremmo evitato la retrocessione anticipata solo vincendo e dissi ai ragazzi: “Siamo dentro la bara e tutti aspettano il nostro funerale, ma non siamo ancora morti”. Vincemmo noi, era destino. Per di più nello stadio dove iniziai da raccattapalle".
La sua giornata tipo?
"Mi sveglio alle 7.30, alle 8 sono al campo. Riunione, poi allenamento alle 11. Pranzo e resto in ufficio fino alle 17.30. A casa, vedo partite in tv con il mio staff. Questo è un mestiere micidiale, combatti con le pressioni. Però parto avvantaggiato: il mio hobby è il calcio, è tutta la mia vita".
Da atleta era un fantasista: come andrebbe con il De Zerbi mister, quasi maniacale?
"Avevo un problema: ero talentuoso, ma dipendevo troppo dalla fiducia della piazza, del tecnico. Se ho un pregio, è di sapermi immedesimare nel giocatore: cerco di dargli ciò che vuole. Parlo di fiducia. Berardi e Locatelli, per carattere, erano come me. Boateng, tra i giocatori che ho allenato, è quello che più si avvicinava al De Zerbi calciatore. Hanno reso tutti al meglio con me a Sassuolo. Trovare la chiave con il singolo è la cosa più importante".
Quando ha deciso di diventare allenatore?
"A Cluj, in Romania: ero vuoto fisicamente, iniziai ad appuntare tutto. Da atleta ero già un rompiscatole: non volevo andare in campo improvvisando. Vivo e vivevo per il calcio: chi non era serio come me, mi dava fastidio".
La preoccupa di più il Sassuolo quartultimo o le rondinelle vicine ai play out?
"Il Sassuolo ha avuto problemi di infortuni, ma si tirerà fuori. Il mio Brescia...i cambi d’allenatore fanno più male che bene, non abbiamo pace (usa la prima persona plurale, ndr) da tanti anni e parlo anche del periodo antecedente a Cellino. È un peccato perché la gente poi si disinnamora, mio figlio va a tifare in curva. Spero che dal mercato arrivi qualche rinforzo utile".
A Sassuolo lanciò Raspadori. Al Brighton sta puntando su Ferguson, un diciottenne. Solo coraggio o c’è altro?
"Distinguere le persone per età mi dà fastidio: non punto sui giovani perché qualcuno me lo chiede, li lancio se sono bravi. E poi cosa può succederti? Al massimo, perdi. Il campo è meritocratico, siamo tutti uguali, non ci sono figli di papà. Verso metà dicembre, mi sono reso conto che Ferguson in allenamento buttava giù le porte. Avevo delle assenze, contro l’Arsenal l’ho lanciato. Mi ha impressionato e dopo tre giorni l’ho proposto come titolare: ha segnato. Ho un occhio di riguardo nella sua gestione perché ha l’età dei miei figli, non mi era mai capitato prima".
Domenica toccherà le 300 gare da allenatore tra i professionisti. Ma lei, nel 2013, si mise alla prova a Darfo Boario in Serie D tra i dilettanti.
"Da lì è partito tutto: quell’esperienza è stata determinante, anche se non riuscimmo a completare la rimonta salvezza. Lì ho capito di poter fare l’allenatore. Mi misi d’accordo il lunedì con la dirigenza, ricordo di non aver dormito la notte, avevo mille dubbi sino a dieci minuti prima della riunione con la squadra. Poi ho avuto un lampo, mi sono sentito al posto giusto: era la prima volta, ma sembrava lo stessi facendo da sempre".
De Zerbi, a chi sente di dover dire grazie?
"Alla mia famiglia: questo lavoro è un casino. E a Luciano De Paola: fu lui a consigliarmi al Darfo e a consentirmi di iniziare ad allenare".
Autore: Redazione SN / Twitter: @sassuolonews
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