Intervista alla Gazzetta dello Sport per Roberto De Zerbi. Il tecnico dello Shakhtar, ex Sassuolo, ha parlato della nuova esperienza in Ucraina, di Raspadori in Nazionale, e di molto altro ancora: "Il mio primo obiettivo sarà dare un’identità allo Shakhtar e questa è la cosa che mi toglie un po’ il sonno. Far emergere la mia impronta".
Contatti con i club italiani?
"Qualche club italiano mi ha chiamato, non mi chieda quale. Non voglio nemmeno valutare se quelle squadre avrebbero potuto fare un po’ di più per convincermi. Io credo che la scelta sia giusta: quello che mi fa stare bene è lavorare a modo mio. Non conta il Paese o lo stipendio. Io voglio essere me stesso. Quando ho capito che nel Sassuolo sarebbe stato difficile fare di più, ho iniziato a guardarmi attorno e lo Shakhtar mi ha convinto dal punto di vista tecnico mentre le soluzioni italiane non mi avevano stimolato. Nella scelta ho messo al primo posto la possibilità di lavorare con le mie idee. Che significa innanzitutto incidere sulla rosa: il mercato in entrata e in uscita deve essere condiviso. Poi autonomia totale a proposito del modello di gioco. Tutto quello che riguarda il campo deve dipendere da me. Questa sarà una bella esperienza: io mi reputo capace, ma non completo. E con lo Shakhtar potrò completarmi. Dirigere un allenamento in inglese, gestire oltre al campionato anche una coppa europea, entrare in uno spogliatoio interamente straniero in cui convivono culture e tradizioni diverse sono cose che mi mettono il fuoco addosso. Ho sempre detto che non mi interessava il nome della squadra, ma il suo progetto. E lo Shakhtar, comunque, è un grande club come dimostra il 18° posto nel ranking europeo, la semifinale nell’Europa League dell’anno scorso e la doppia vittoria con il Real nella Champions di questa stagione".
De Zerbi, quali sono gli obiettivi dello Shakhtar?
"Prima di tutto il campionato, che inizia il 20 luglio. Saremo in ritiro dal 14 giugno. Poi superare i preliminari di Champions. Sarà un’avventura difficile, ma molto stimolante. E in questa scelta è venuto di nuovo fuori Roberto, l’uomo oltre che l’allenatore. Ho lasciato una situazione di comfort a Sassuolo per ripartire da zero: mi metto alla prova per vincere qualcosa".
Intanto ha mandato all’Europeo Locatelli, Berardi e Raspadori.
"Non li ho mica mandati io, ci vanno perché sono bravi, perbene e intelligenti. Locatelli aveva solo bisogno di resettare l’exploit di inizio carriera: è straordinario. Berardi aveva cominciato il percorso alla grande e dopo un fisiologico calo noi l’abbiamo aiutato a riprendere il cammino. Su Raspadori abbiamo puntato tanto".
Raspadori può essere l’uomo del destino all’Europeo?
"E’ molto forte. E la Nazionale gioca un calcio che gli si addice Ha già dimostrato di poter fare la differenza in Serie A".
E’ una punta alla Aguero?
"Il ruolo è quello, le caratteristiche anche. Ma non è solo bravo in area di rigore. Quando si abbassa a cucire il gioco lo fa con una qualità e una classe da numero 10. Sa far giocare la squadra ed è bravo a finalizzare. Negli spazi stretti diventa micidiale. E poi ha forza, non è vero che è limitato fisicamente: l’altezza non è tutto. In campo è fastidioso, tignoso, non molla mai. Ci ha messo poco a conquistarmi. Nel mio primo anno al Sassuolo è venuto in ritiro con noi e abbiamo capito subito quanto fosse bravo. Alla fine di quella stagione l’ho fatto esordire e poi è stato stabilmente con la prima squadra. Non ha avuto spazio prima perché in rosa c’erano Caputo e Defrel".
Quanto studio e quanto aggiornamento c’è dietro alle sue idee?
"Il giusto, anche se il giusto non basta mai. Cerco sempre di modellare la squadra a seconda dei giocatori e poi degli avversari e della partita, mantenendo però invariati l’identità e i principi".
Identità, parola magica.
"Possono cambiare i giocatori e ovviamente gli avversari, ma l’idea di calcio è sempre la stessa. Quest’anno con il Napoli all’andata abbiamo aspettato bassi e al ritorno alti".
Strategia. Che è altra cosa rispetto alla tattica.
"Esatto. In Italia siamo bravissimi nella strategia, cioè prepariamo la partita nei dettagli. Ma quel lavoro si esaurisce al 90’. I principi, l’identità, la tattica sono per sempre. Lavorare solo sulla strategia non migliora la squadra e non illumina il suo percorso, mentre la tattica e i principi accrescono le conoscenze e la comprensione dei giocatori. La cosa bella è riuscire a mischiare queste due cose. A Foggia io lavoravo quasi esclusivamente su tattica e principi, in Serie A non si può. Ma se dovessi fare delle percentuali direi 80% tattica e 20% strategia. O giù di lì".
Cosa significa giocare bene?
"Non l’ho ancora capito, me lo spiega lei? Io credo che significhi essere organizzati e far rendere al massimo i propri giocatori. E poi bisogna intendersi sulle cose. Ad esempio, quando si parla di equilibrio, in Italia lo facciamo sempre con una prospettiva difensiva: se una squadra non tira mai in porta, ma non subisce contropiede diciamo che ha equilibrio. Se invece crea tantissimo e concede qualcosa diciamo che non ha equilibrio. Mah...».
La scuola tedesca di allenatori (vincente in Champions da tre anni) sta insegnando qualcosa?
"Quei successi non sono un caso. Il calcio tedesco dal punto di vista tattico e di principi di gioco è superiore al nostro. Noi italiani magari sappiamo leggere meglio le partite, siamo più strateghi".
L’Inter in campionato e il Chelsea in Champions hanno vinto blindando la difesa. E’ sempre quella la chiave?
"Quando un allenatore propone una cosa, lo fa perché ne ha studiato l’efficacia e anche perché rappresenta bene le sue idee. Tuchel è un grandissimo, ma io preferirei perdere la finale di Champions con Guardiola in panchina piuttosto che vincerla con un altro tecnico. E il City comunque ha dominato la Premier con la miglior difesa".
Autore: Redazione SN / Twitter: @sassuolonews
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